Corriere della sera
di Pierluigi Battista
Il sindaco Marino può rivendicare la sua estraneità alle indagini, ma la giunta è accusata di essersi fatta coinvolgere nei traffici illegali
Se quel groviglio di malaffare comunque maleodorante non fosse «mafia», la magistratura avrebbe giocato troppo pesantemente. Se fosse «mafia», se le parole hanno un senso, se la giustizia vuole essere diversa dai modi di dire e dalla narrazione noir in salsa capitolina, allora il destino di Roma, la capitale d’Italia, diventa un problema politico che richiede tagli drastici. Si invocano rotture e «discontinuità» in continuazione, cosa deve aspettare ancora la politica romana? Non è sufficientemente squassante la mafia in Campidoglio a far da padrona?
I cittadini italiani da tempo contribuiscono a pagare la montagna di debiti di Roma, evitandone il default. Non è giusto che un cittadino italiano non debba sapere come viene dilapidato il suo contributo. Ed è sconvolgente il sospetto che il denaro pubblico vada a puntellare un’istituzione inquinata dalla mafia nei suoi gangli vitali. Con un’associazione a delinquere che nella passata sindacatura di Alemanno si è installata nel centro magico del governo cittadino e in questa di Marino piazzando i suoi referenti politici nella giunta Marino, ai vertici del consiglio comunale e finanche, con un paradosso lessicale che sembra mutuato di peso da un romanzo di Orwell, nell’organismo preposto alla «trasparenza» della cosa pubblica.
Matteo Orfini, che ha assunto il compito ingrato di commissariare il Pd romano immerso fino al collo nella melma, sostiene che non ci sono gli estremi per il commissariamento del Comune di Roma. Ma perché la sacrosanta esigenza di azzerare il Pd romano non deve valere anche per il governo del Comune? Se c’è l’urgenza di ripartire da zero per un partito, non c’è forse la stessa urgenza per le istituzioni? Non percepiscono forse l’abisso di sfiducia in cui è piombata tutt’intera la politica romana e che oggi contagia l’intera cittadinanza italiana, stanca del privilegio che sinora Roma ha goduto come debitrice super-assistita con le risorse pubbliche gettate in una fornace di sprechi senza fondo?
Il sindaco Marino può rivendicare la sua estraneità alle indagini, e anche l’orgoglio di essersi sottratto all’abbraccio di una lobby malavitosa. Il prefetto si dice addirittura preoccupato per l’incolumità del primo cittadino di Roma, che va tutelato e non indebolito. Ma la sua giunta è accusata di essersi fatta infilare dalla mafia e la sua maggioranza nella sala intitolata a Giulio Cesare si è rivelata inaffidabile, permeabile, come è stata descritta su queste pagine da Fiorenza Sarzanini, alle sollecitazioni criminali, parte integrante di un sistema che ha gestito con concordia bipartisan affari, appalti, rifiuti, persino «immigrati», trattati come un business più vantaggioso del traffico di droga.
Quel «tariffario» a base del libro paga dell’associazione non si può dimenticare. E azzerare tutto, con un gesto di responsabilità e di buona volontà se il prefetto non dovesse provvedere a uno scioglimento d’autorità, può diventare un segnale di rigenerazione, una pagina totalmente nuova, l’ultimo tentativo di riconquistare la fiducia perduta dei cittadini, romani e non. E tutti dovranno chiedere scusa. La destra romana in primis, che deve espiare la colpa di aver messo il Comune nelle mani di una banda. E che dovrebbe avere la decenza di non sfilare più in nome della «sicurezza» dopo aver partecipato al banchetto sugli appalti per i campi nomadi.
Le Coop che si sono appoggiate così a lungo a figure di corruttori senza pudore: di questo devono rispondere i suoi dirigenti, e non delle foto di cene a cui ha partecipato l’attuale ministro Poletti. I governi, che dovrebbero metter mano subito alla palude infetta delle partecipate. Il Pd, che dovrà fare piazza pulita di comportamenti che lo hanno reso un partito impresentabile. E le forze economiche che aspettano eventi piccoli e grandi (le Olimpiadi anche?) per abbandonarsi nuovamente all’andazzo delle gare d’appalto truccate, alle cordate, alle cricche. Forse addirittura, ma solo se venisse confermato l’impianto accusatorio della magistratura, alle cosche.
5 dicembre 2014 | 08:58
Favori, affari e invidie, ecco perché il Pd romano è nelle sabbie mobili
di Alessandro Capponi
Dal premier Renzi carta bianca a Orfini. Fuori chi si metterà di traverso

Non è vero che la politica sia destinata, ormai, ad arrivare sempre dopo la magistratura: «Nel Pd a livello locale, e parlo di Roma, facendo le primarie dei parlamentari ho visto, non ho paura a dirlo, delle vere e proprie associazioni a delinquere sul territorio». Era il giugno 2013, e per quelle parole - pronunciate in un intervento pubblico - l’attuale ministro Marianna Madia fu ampiamente criticata.
Due mesi prima uno dei membri della direzione del Pd Lazio, Cristiana Alicata, in occasione delle primarie pd per l’elezione del sindaco, denunciò «le file di rom ai seggi», parlò di «voti comprati».
C’erano tanto di foto, con i rom in fila ai seggi, ma il risultato di quelle frasi fu, più o meno, solamente uno: «Mi dimisi dal Regionale - racconta oggi Alicata - perché le polemiche furono feroci, mi diedero della razzista». Dai vertici alla base, il sentimento è lo stesso: «Il problema a Roma - dice il segretario del circolo Trastevere, Alberto Bitonti - è un sistema ormai diffuso, bisogna fare i conti con i gruppi di potere, coi signori delle tessere».
Benvenuti nel Pd Roma, o in quel che ne resta dopo l’inchiesta «Mondo di Mezzo», che ha svelato sì il modo nel quale, secondo i magistrati, il centrodestra guidato da Gianni Alemanno ha governato Roma, ma anche questa prossimità, questo «consociativismo» del Pd, che in quegli anni era, ufficialmente, all’opposizione. Un po’ morbida, si disse in città in alcuni momenti, tanto che l’allora capogruppo pd, Umberto Marroni, vicino alla cooperativa di Salvatore Buzzi, secondo alcuni era «il delegato del sindaco all’opposizione». Lui si indignò a sentire come lo chiamavano, e anche oggi che è deputato protesta per gli accostamenti del suo nome all’inchiesta: «Evidentissimo caso di millantato credito. La mia scelta di partecipare alle primarie nulla ha a che vedere con l’inchiesta».
Precisazione forse necessaria, nelle intercettazioni il capo delle cooperative sociali, Salvatore Buzzi, dice: «Noi lanciamo Marroni alle primarie!». Di certo in molti, oggi, descrivono il partito locale con due sole parole: sabbie mobili. O con una: pantano. Perché «nella migliore delle ipotesi - spiega un deputato vicino a Renzi - il Pd della città non ha avuto né una visione, né gli anticorpi necessari». Le frasi, pronunciate in cambio dell’anonimato, oggi si sprecano: «Non c’è stata una classe dirigente vera, non si salva nessuno, politicamente sono tutti responsabili».
Ecco, è scattato il tutti contro tutti. C’è chi tira in ballo le vecchie gestioni (Rutelli-Veltroni-Bettini): «Furono la migliore classe politica ma non hanno lasciato un’eredità degna di quel passato». Chi accusa la nuova egemonia romana, col patto siglato prima delle Europee tra i turborenziani di Lorenza Bonaccorsi, i popolari, e i marroniani. Da sempre critico è Roberto Morassut, già assessore ai tempi di Veltroni sindaco: «Da anni dico che bisognava uscire dai cda, rovesciare il tavolo senza mediazioni». Morassut ha urlato la sua idea della degenerazione del Pd locale in ogni modo: ha parlato di «partito delle tessere», di «lobby di potere», di «tribù». E le primarie? «Truccate, decidono i capicorrente».
Che la situazione del partito nella Capitale fosse un guaio era ben noto al presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che secondo alcuni, tempo fa, si lasciò andare a una battuta: «Peggio di Marino, a Roma, c’è il Pd locale». Vera o falsa che sia la freddura racconta un mondo - il Pd Roma che tiene in scacco Marino - che però adesso si è capovolto: perché Renzi ha spedito in città il «commissario» Matteo Orfini, facendolo accompagnare, stando ai rumors, da poche frasi. «Uno, il presidente dell’Aula lo sceglie il sindaco!».
Risultato: sarà eletta Valeria Baglio, la preferita di Marino. Sistemato lo scranno che fu di Mirko Coratti (quello del quale Buzzi nelle intercettazioni dice « me lo so’ comprato ») - Renzi pare aver dato indicazioni chiare anche sull’accoglienza da riservare ad Orfini: «Chi si mette di traverso non si candida più neanche a un consiglio d’istituto». Lionello Cosentino, l’ormai ex segretario romano, ha scritto una lettera per salutare: «Vado in pensione, ai giardinetti, con un buon libro in mano». Illusioni perdute , forse.
5 dicembre 2014 | 08:20