La Stampa
Dagli archivi della presidenza del Consiglio le testimonianze di uno dei protagonisti, Antonino De Vita, su quei tragici giorni del 1970: «Feci presente che, se i francesi non erano riusciti a restare in Algeria, tanto meno avrebbero potuto farlo gli italiani, pochi e non organizzati in gruppi armati»
francesco grignetti
roma

Quando Gheddafi cacciò gli italiani, nell’estate del 1970, ci fu chi non voleva abbassare la testa. Ci fu chi immaginò una resistenza armata, alla maniera dei coloni francesi in Algeria. Per fortuna non andò così. Ed è arrivato il momento di raccontare tutta la verità. E’ tempo di rivelazioni, infatti, attorno alla Cacciata degli italiani dalla Libia. Dagli archivi della presidenza del Consiglio sono usciti documenti illuminanti sui tentativi di trovare un mediatore in Nasser e poi sulle preoccupazioni dell’allora ministro degli Esteri, Aldo Moro.
Moro temette fortemente che la situazione precipitasse in violenze. Non aveva torto. Ai primi di novembre, arriva un libro a firma della giornalista e scrittrice Liliana Madeo (“I racconti del professore”, Iacobelli editore) che raccoglie le testimonianze del professore Antonino Di Vita, straordinario archeologo che ha formato generazioni di studiosi, protagonista di scavi ad Atene e in Libia. Le sue due seconde patrie. Il professor Di Vita è scomparso un anno fa e tra qualche giorno, il 22 ottobre, l’Accademia dei Lincei dedica una giornata di studi alla sua opera. Di Vita ha però voluto affidare a Liliana Madeo i ricordi di una vita eccezionale. E sono tante le rivelazioni, ad esempio sulle tentazioni di prendere le armi.
“Subito dopo la rivoluzione – scrive Liliana Madeo, riportando la voce dell’illustre archeologo – il Comitato rivoluzionario avrebbe voluto essere riconosciuto in primis dall’Italia, con cui nel bene o nel male i rapporti erano stati sempre stretti. L’Italia invece esitò e non fu il primo Paese a riconoscere il movimento capitanato da Gheddafi: fu il terzo o il quarto, se non ricordo male, dopo Inghilterra, Francia e Stati Uniti…. Le gaffes, i ritardi, gli errori compiuti dalle autorità italiane si susseguirono”.
Forse, dunque, con Gheddafi le cose sarebbero potute andare diversamente. Ma mancò chi potesse cogliere l’attimo. “ Nell’agosto 1970 Gheddafi pronuncia un discorso a Misurata nel quale dice che, dopo aver sistemato americani e inglesi, cacciati rispettivamente dalla base aerea di Tripoli e da Tobruk, era arrivata l’ora di sistemare la partita anche con gli italiani. Ma chi c’era della nostra rappresentanza diplomatica in grado di cogliere appieno il significato di questo discorso?
Paradisi, il Consigliere d’Ambasciata che parlava arabo, uno studioso della cultura berbera che si stava peraltro trasferendo in Algeria, era morto. Come addetto per la parte araba era subentrato un italiano, che credo fosse nato in Tunisia e che purtroppo pochi mesi dopo il suo arrivo in Libia era annegato nelle acque di Tripoli. L’unico conoscitore dell’arabo era un impiegato armeno ottantenne. Lui trascrisse il discorso di Gheddafi a Misurata. E inviò la trascrizione a chi di dovere. Ma l’avvertimento evidentemente non fu compreso né dalle nostre autorità in loco né a Roma”.
Di Vita quell’estate era a Roma. Fu informato dai suoi amici archeologi libici di precipitarsi a Tripoli per “contrattare” personalmente il futuro delle nostre missioni scientifiche. “Mi sistemai a Sabratha – racconta - ma ogni sera andavo a Tripoli… Non tutti gli Italiani erano però disposti ad accettare il diktat di Gheddafi. Un nutrito gruppo si riuniva la sera presso lo studio di un fotografo di Sciara Haiti (Corso Haiti, ndr). Si trattava di giovani e meno giovani che, sull’esempio dell’Algeria, volevano resistere con le armi all’iniqua cacciata.
Io partecipai a una di queste serate venendo di nascosto da Sabratha. Ascoltai con grande attenzione i discorsi che infiammavano l’aria. Ne fui impressionato. Non riuscii a tacere. Mi presentai. Feci presente che, se i Francesi non erano riusciti a restare in Algeria, tanto meno avrebbero potuto farlo gli Italiani, pochi e non organizzati in gruppi armati. Di rimando ribattevano: Ma noi siamo nati qui. Il nostro Paese è la Libia. Siamo vissuti, abbiamo lavorato per tutti i nostri anni in questo Paese. Molti dei nostri amici più cari sono libici. Perché andare in un’Italia che non conosciamo affatto? Per fortuna l’idea di una resistenza armata non prese corpo e fu messa da parte”.
La comunità italiana a quel punto si trasformò in un formicaio impazzito. Si fondevano oggetti d’argento nella casa per farne corpetti per le ragazze, in modo da portare via almeno l’argenteria. Si buttavano borse con denaro al di là del muro di cinta della nostra ambasciata sperando che qualcuno potesse fargli riavere un giorno in Italia quei sudati risparmi. “E’ stata una tragedia epocale. Che vissi in prima persona, contento da un lato di aver salvato le missioni ma profondamente addolorato nel vedere gente, amici che tanto avevano dato per lo sviluppo in ogni campo della Libia perdere tutto”.
Libia 1970, quando la Farnesina pensava alla grande fuga da Tripoli
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Nuove sorprese emergono dagli archivi: l’allora ministro degli Esteri Aldo Moro temeva che gli italiani finissero a migliaia in ostaggio del regime di Gheddafi
francesco grignetti

Nuove sorprese emergono dagli archivi. Il 1 agosto 1970, pochi giorni dopo che Gheddafi aveva proditoriamente ordinato la confisca dei beni degli italiani residenti in Libia, l’allora ministro degli Esteri Aldo Moro incontrava a Beirut il suo omologo libico, Buesir. Un incontro urgente che era stato organizzato da un ennesimo mediatore, il ministro degli Esteri turco Caglyangil. Moro era preoccupatissimo perché la Libia non stava facendo più partire gli italiani e temeva che finissero a migliaia in ostaggio del regime. Altro che ostacolare la Cacciata (come avvenne formalmente il 7 ottobre), la Farnesina si preoccupava di organizzare una grande fuga da Tripoli.
“Da parte italiana – si può leggere in una relazione che l’allora consigliere diplomatico Aldo Marotta sottoponeva al vicepresidente del Consiglio, Francesco De Martino, e che si può leggere sul sito Internet del Senato, sezione archivi online – la conversazione è stata inquadrata principalmente sulla necessità che i libici lascino partire, al più presto e tranquillamente, gli italiani. Si perciò rimandato ad ulteriori contatti la questione della confisca dei beni (e dei relativi indennizzi) nonché dello sviluppo – in una nuova atmosfera – dei rapporti italolibici”.
Occorre qui fare un passo indietro. Il nuovo regime libico aveva preso il potere nel settembre 1969. Dopo qualche mese di confusione e di segnali contraddittori – ben raccontati dal libro dello storico Arturo Varvelli, “L’Italia e l’ascesa di Gheddafi” – il 9 luglio 1970 Gheddafi teneva a Misurata un discorso dai fortissimi toni anti italiani; il 21 luglio veniva emanato un decreto per la confisca dei beni degli italiani che travolgeva 273 proprietari di aziende agricole e 720 proprietari di beni immobili o aree fabbricabili.Da quel momento è il panico. Sia nella comunità italiana residente in Libia, sia alla Farnesina. Contestualmente agli italiani vengono bloccati tutti i visti per lasciare il Paese.
Moro si convince che Gheddafi, con il quale la diplomazia italiana non riusciva a interloquire, e perciò due mesi prima aveva chiesto inutilmente aiuto a un altro mediatore, il raiss egiziano Nasser, potrebbe prendere gli italiani in ostaggio. “Si ha la netta impressione – riferisce a palazzo Chigi l’ambasciatore Marotta, basandosi su incontri avuti con il segretario generale della Farnesina, Roberto Gaja – che i libici vogliano servirsi del “possesso” della comunità come arma di pressione per risolvere varie questioni secondo loro pendenti (evidentemente anche quella degli indennizzi relativi alla confisca che essi pensano difficilmente accettabile sic et simpliciter)”.
Per un momento, dunque, caliamoci nel clima del momento. Ci sono migliaia di cittadini italiani che sono stati spogliati dei loro averi, che temono anche di peggio, ma che non possono partire. “Buesir ha ovviamente accennato agli ostacoli burocratici che impedirebbero la partenza di molti degli italiani (dimostrazioni di avvenuti pagamenti, ricerca di atti di proprietà, etc.) evidentemente sperando di spacciare per buono un perfezionismo amministrativo di cui in Libia (dove molti archivi sono stati sempre tenuti “sotto le palme” o non ci sono mai stati) mai si è fatto segno”.
Moro a quel punto fa la faccia dura: o vedrà “subito concreti segni della volontà libica a far partire i nostri connazionali e a rendere meno intollerabile l’atmosfera attuale; come primi segni concreti sono state chieste le partenze, al pieno, delle prossime navi. A giorni si vedrà se i libici lasciano partire i 500 italiani prenotati da tempo su una nave che dovrebbe lasciare Tripoli”. Inutile dire che sullo sfondo si agita la questione petrolifera. Quando Moro accenna ai “rapporti futuri”, è l’Eni che intende. Infatti, “Egli e il ministro Moro ha l’impressione che si va incontro a una lunga, difficile e complicata trattativa che potrebbe portare anche a decisioni ultimative (quale la revisione della politica petrolifera finora seguita)”.
La conclusione del colloquio, comunque, tranquillizza Moro: Buesir s’impegna a lasciar partire gli italiani e anche ad abrogare il provvedimento che ordinava la chiusura di tutti i negozi degli italiani. Moro e il suo collaboratore Gaja, comunque, non si fanno illusioni. “Per quanto riguarda la questione della confisca dei beni (e dei relativi indennizzi), nonché quelle relative alla nuova impostazione dei rapporti italo-libici si prevedono molte difficoltà, lungaggini e tortuosità arabe”. Concludendo, Gaja si sfoga con il suo amico Marotta, che era stato suo vice nelle trattative con l’Austria: “Mi pare che si sia aperto un altro Adige”.
La trattativa segreta di Moro con Nasser per gli italiani in Libia
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Tra i primi gesti “rivoluzionari” di Gheddafi ci fu la cacciata degli italiani dalla Libia. Ma il 7 ottobre 1970 Gheddafi espulse i nostri connazionali
francesco grignetti
roma

Libia, 7 ottobre 1970. Quarantatrè anni fa. Gli italiani vengono cacciati da Gheddafi. Quarantamila persone sono espulse dalla mattina alla sera, dichiarate «indesiderate» dal nuovo governo rivoluzionario che ha preso il potere un anno prima. I loro beni, confiscati. Uno choc per tanta brava gente che nulla aveva a che fare con le vicende coloniali e che si considerava tripolina a tutti gli effetti.
Nella rabbia del momento, tanti accusarono il governo dell’epoca, e soprattutto il ministro degli Esteri Aldo Moro, di non avere capito gli eventi e di non essere intervenuto. Ma non è così. Dagli archivi emergono documenti che raccontano di una trattativa segreta condotta da Moro attraverso un mediatore d’eccezione, il raiss egiziano Gamal Nasser.Quanto il ministro fosse in ansia ce lo racconta un certo ambasciatore Aldo Marotta, consigliere diplomatico dell’allora vicepresidente del Consiglio, Francesco De Martino.
«Moro - si legge in una sua relazione del 27 maggio 1970, oggi consultabile sul sito storico del Senato, sezione archivi online - ha espresso le sue preoccupazioni per le difficoltà dei rapporti italo-libici particolarmente per quanto riguarda la nostra comunità in Libia. Nasser ha risposto che occorre avere pazienza perché la nuova dirigenza libica è giovane e inesperta, e oltre che Ghe Dafi (scritto così dal dattilografo di palazzo Chigi, malamente, in due parole: Gheddafi in Italia era un oggetto misterioso, ndr) solo pochi altri contano. Egli parlerà a Ghe Dafi nel prossimo vertice di Kartoum».
L’incontro tra Moro e Nasser si tiene al Cairo. In agenda: i rapporti arabo-israeliani e la situazione palestinese. Moro, con le sue tipiche cautele lessicali, fa capire all’interlocutore che finché l’Egitto si appoggerà all’Urss, la crisi dell’area non avrà soluzione in quanto parte della Guerra Fredda. Insiste perché l’Egitto si allontani da Mosca e apra trattative dirette con Tel Aviv. Si propone come mediatore. «Il governo di Roma è a completa disposizione come ha già dimostrato in passato (proponendo il famoso “calendario operativo” nell’ambito dell’Onu, iniziativa Fanfani) e ritiene che si tratti ormai di dover iniziare qualche gesto concreto (come il riconoscimento di Israele) per mettere in moto un meccanismo, anche societario, che spinga Mosca, gli Stati Uniti, Israele e il Cairo a ravvicinare le loro posizioni».
E’ in questo quadro di reciproche disponibilità, che Nasser diventa il mediatore degli interessi italiani verso la Libia. «Nasser ha insistito - riferisce ancora Marotta - presso il ministro dell’Industria libico perché riceva a Tripoli, prossimamente, una nota personalità italiana. Ha ricevuto risposta affermativa. Pensa che l’incontro dovrebbe avvenire al più presto ed iniziare una nuova presa di contatti italo-libici che favorirebbero la situazione. Moro ringrazia e si dichiara d’accordo». Fin qui, il 27 maggio, i primi passi di una trattativa che ben presto si rivela illusoria. Marotta aggiunge a margine che «ancora non è stato scelto il politico che dovrebbe andare in Libia perché si attende, per via diplomatica, conferma da Tripoli».
La conferma non verrà mai. Anzi. A luglio il regime colpirà i beni degli italiani, ordinando la confisca di immobili e terreni. Ad agosto si minacciò di far chiudere tutti i negozi degli italiani. Forse era inevitabile che finisse così: Gheddafi aveva preso il potere per rivoluzionare la Libia, cacciare le truppe inglesi e americane, e cavalcare l’identità nazionale: l’Italia occupante e gli italiani colonialisti non potevano che diventare il suo principale bersaglio.Secondo lo storico Arturo Varvelli, poi, che ha scritto un acuto saggio («L’Italia e l’ascesa di Gheddafi», Baldini Castoldi Dalai editore) basandosi su documenti della Farnesina, Moro in realtà sbagliò a fidarsi di Nasser.
Gli egiziani avevano interesse a sostituirsi agli italiani in Libia, non a tenerli lì. Nasser avrebbe condotto quindi un doppio gioco, facendo credere al governo di Roma di curare i nostri interessi, invece organizzandosi per inviare a Tripoli migliaia di tecnici egiziani disoccupati al posto dei nostri ingegneri architetti e agronomi sul punto di essere espulsi. Probabile. E’ un fatto, però, che finché Nasser fu in vita, la crisi italo-libica non precipitò. L’estate del 1970 passò tra alti e bassi, roboanti dichiarazioni pubbliche e accomodanti segnali privati.Drammaticamente, poi, il 1° ottobre, Nasser morì per un infarto, lasciando sconvolto l’Egitto e a lutto l’intero Medio Oriente. Sei giorni dopo, sentendosi le mani libere, Gheddafi cacciava gli italiani.