Corriere della sera
I soccorritori: «Non c'era più nulla, solo ghiaia e cadaveri»

LONGARONE (Belluno) - Fu soltanto la prima ed è rimasta l’ultima per sempre. «Una ragazza nuda, voltata di fianco, il viso poggiato sulla spalla, le braccia distese, i lunghi capelli biondi sparsi nel greto di un torrente. Non c’era un rivolo d’acqua. Lei mi fissava. Era morta». Quando la notte del Vajont l’alpino Lino Chies entrò a Longarone, lui con il suo Sesto Artiglieria della caserma di Belluno, la vide. Ancora adesso, cinquant’anni dopo la strage del 9 ottobre 1963, la trova allo stesso posto. «Se guidando passo in quel punto, sul ponte d’asfalto sopra il torrente, io rallento e già lo so. Già so che girandomi, oltre il finestrino, nel greto vedrò il cadavere della giovane donna. Come se non l’avessero mai coperta, portata via e seppellita. In mezzo secolo».
I SEGRETI DEGLI UFFICIALI - Le colpe dell’uomo e le complicità della natura. Un massacro annunciato e perfino in un certo senso atteso. Un altro forte settantenne, un altro alpino di quella prima squadra di soccorritori è Alvise Gandin. Vicino al suo albergo ha realizzato uno straordinario museo sulle guerre. Armi, lettere e indumenti scovati in mercatini e cantine di mezzo mondo. «Sono tre le grandi guerre di noi alpini. Il primo conflitto mondiale, il secondo e poi il Vajont. Ci sono stato 58 giorni di fila, a Longarone. Per scavare, spostare macerie, cercare superstiti. Ma non c’era più niente. Niente». Qualcuno non ha resistito. Altri soccorritori scapparono. Altri ancora uscirono pazzi nel corso degli anni. Qualcuno si tolse la vita.
Del resto traballarono anche i granitici reduci dalla ritirata di Russia. Se li ricorda bene, Lino Chies. «Uomini d’età e di esperienza. Uomini duri. Ma in mezzo alla distesa di ghiaia, ghiaia ovunque, incontrarono difficoltà». E fra loro più di un ufficiale sapeva alla vigilia dell’imminente disastro. Giura Gandin: «Era da una settimana che i vertici ci tenevano in allerta, ripetevano che sarebbe potuto partire da un momento all’altro l’ordine di evacuazione di un paese. Quale paese fosse, non lo specificavano. E ugualmente noi poveri alpini ignoravamo le cause. Nessuno degli ufficiali raccontava nulla. Non ci dicevano niente. Doveva restare un segreto».
LA MAPPA DEL NULLA - Eppure anche in valle tutti sapevano. Da un pezzo. Il Monte Toc, il monte che poi franò nella diga del Vajont sprigionando un’onda d’acqua di oltre cento metri, ogni giorno scivolava di qualche centimetro. Si muoveva. Stava per cedere. Per cancellare la valle. Un terzo reduce intervistato dal Corriere, Diego Colombo, non un alpino ma un ex ufficiale dell’Esercito, cerca di mimare il disorientamento di allora. Si guarda freneticamente intorno senza trovare pace. «Longarone era un paese di emigranti. Arrivarono alla spicciolata e iniziarono a domandare un aiuto: "Io abitavo vicino all’albergo, scavate là, là c’è la mia famiglia…" diceva uno. E un altro: "Io vivevo dietro il fornaio, forza, vi ci porto io…" Il problema è che mancavano punti di riferimento. Non c’era più l’albergo, non c’era più il fornaio. Non c’era differenza fra i luoghi visto che era un deserto unico». Il ritorno degli emigranti - Non si scoraggiavano lo stesso, gli emigranti. L’alpino Natale Perini scelse di lavorare alla costruzione del nuovo cimitero. Cadaveri da comporre, cadaveri da identificare, cadaveri ai quali dar pace e terra.
«Un giorno mi si fece avanti un signore, lavorava lontano, a Longarone aveva perso in tutto trenta, quaranta parenti ed era rientrato, peraltro con un drammatico finale vagare tra i monti in cerca di un varco, essendo franate tutt’intorno alla valle anche le strade e le ferrovie. Il signore mi chiese di aiutarlo a preparare le bare per i suoi cari. Non ne avevamo di bare, in quel momento, erano terminate. Le prime arrivarono dopo un giorno. E quel signore rimase lì fermo, immobile, nello stesso punto, in silenzio, per quarantotto ore consecutive. Fino a quando tutti i famigliari non furono via via sepolti. Allora ringraziò noi alpini uno a uno, e se ne andò. Probabilmente se ne tornò in fretta da dov’era venuto, per paura di perdere il posto di lavoro».
30 settembre 2013 | 9:55
Gli angeli del Vajont «Eravamo ragazzini, ritornammo uomini»
Domenica a Longarone il raduno dei soccorritori: attesi in mille. Lo scout: «Avevo 16 anni, spostavo i corpi»
LONGARONE (Belluno) — «Arrivò una camionetta e i militari scaricarono un fagotto. All’interno c’erano un piede e la testa di una bambina. Aveva i capelli lunghi, raccolti in una coda trattenuta da un fermaglio colorato. È stato terribile: per settimane, notte dopo notte, ho continuato a sognare quella bambina…». Enrico Biagioli nel 1968 aveva sedici anni e faceva parte degli scout, quando arrivò la notizia che una frana era piombata sul bacino artificiale del Vajont, sollevando un’onda che aveva spazzato via interi paesi. Partì dal suo paesino in provincia di Perugia senza sapere bene cosa aspettarsi.
«Volevo solo dare una mano, non avrei mai immaginato ciò che avrei vissuto in quei giorni», racconta. Morti, macerie, distruzione. «Io e altri scout fummo assegnati al cimitero. Dovevamo ricomporre le salme che venivano raccolte a Longarone, sistemando come riuscivamo quei corpi nudi e dilaniati in modo da poterli fotografare, per consentire ai parenti di riconoscerli». Ci sono ricordi che non si possono cancellare. Flashback che a cinquant’anni di distanza conservano tutti i dettagli, le luci della prima alba che si stagliò su quell’abitato trasformato in campo santo, e i suoni dei badili. Perfino l’odore, quello dei cadaveri in putrefazione, non si può scordare.
Il vicentino Pietro Besoli a 22 anni Il vicentino Pietro Besoli a 22 anni E allora sono proprio quelle immagini e quei gesti che uniscono i diecimila angeli del fango che, nei mesi successivi a quel 9 ottobre del 1963, andarono ad aiutare le popolazioni colpite. Domenica, quando ormai mancheranno una manciata di giorni al cinquantesimo anniversario del disastro, molti di loro si ritroveranno a Longarone. All’epoca erano militari, infermieri, scout, o semplici civili. Oggi, chi c’è ancora, è in pensione. Sono almeno un migliaio quelli attesi in un commovente abbraccio coi superstiti. Perché anche loro, in qualche modo, sono dei sopravvissuti al Vajont.
Come Pietro Besoli, vicentino che oggi ha 72 anni e all’epoca era un alpino che svolgeva il servizio di leva a Ponte delle Alpi. «A mezzanotte ci dissero che era crollata una diga, partimmo subito. Quando l’alba cominciò a illuminare la zona, dove prima esisteva un paese ora c’era un deserto. Vidi le rotaie del treno divelte, gli edifici spazzati via…». I morti erano dappertutto. «Rimasi sul campo per 45 giorni, durante i quali raccogliemmo decine di salme, nessuno sembrava essere sopravvissuto…». Domenica al raduno dei soccorritori parteciperà anche il vigile del fuoco Alessio Babetto, di Teolo. «Si lavorava per 10, anche 15 ore al giorno. Le salme venivano raccolte e sistemate l’una accanto all’altra sul ciglio della strada.
L’odore cominciò a sentirsi dopo qualche giorno, quando iniziarono ad affiorare i resti che erano rimasti imprigionati tra le macerie...». Ricordi drammatici che si mescolano ad altri più dolci. «C’è una piccola cosa, di quei giorni, che mi è rimasta impressa: dopo aver lavorato per tutto il giorno, la sera andavamo al bar a Ponte delle Alpi, e lì c’era sempre qualcuno che ci offriva da bere.
È gente di montagna e questo era il loro modo di dirci grazie». Come ai giovani scout perugini, anche all’infermiere Giovanni Artuso di Rosà, nel Vicentino, toccò il compito di sistemare le salme che venivano scaricate al cimitero. «Impossibile dimenticare tutti quei morti, fu un disastro...». Anche l’alpino Franco Azzolin, di Marostica, ricorda tutto di quei giorni.
«Fummo i primi ad arrivare sul posto, quando ancora era buio. Il comandante ci ordinò di rimanere fermi, schierati a ventaglio, per attendere l’alba. Lentamente, le prime luci del giorno cominciarono a illuminare la zona: il paesaggio era cambiato, l’onda aveva spazzato via tutto. Sembrava di stare sulla luna. Il capitano disse: "Qui forse c’era Longarone". E allora capimmo cos’era accaduto». Per giorni raccolsero i cadaveri. «Alcuni commilitoni trovarono una donna e un bimbo ancora vivi». Troppo poco per ridare conforto a quei primi soccorritori. Domenica torneranno in quei luoghi. Il fango è stato ripulito, le case ricostruite. Ma la diga è ancora là, a fare da monito alle generazioni future. Non sarà facile, per loro, rivederla. Enrico Biagioli, lo scout, ancora si emoziona. «Sono partito per il Vajont che ero un ragazzino. Sono tornato uomo».
Andrea Priante
14 settembre 2013
Vajont, tre giorni per non dimenticare
Dal 13 al 15 a Longarone il primo atto delle celebrazioni. Da Orlando a Zaia, al raduno dei soccorritori
VENEZIA - Una tre giorni per ricordare, ma anche per fare il punto sulla prevenzione, sulle attività di soccorso in caso di disastri, sapendo, come ha ricordato il sindaco di Longarone (Belluno), Roberto Padrin, che con la tragedia del Vajont, del 9 ottobre 1963, che causò quasi 2.000 vittime, di fatto «è nato il primo embrione della Protezione Civile in veneto». È fitto di appuntamenti delle celebrazioni «La Protezione Civile e il Vajont. Prevenzione, Soccorso, Memoria», in programma da domani, venerdì 13 a Longarone, con la prevista presenza del ministro dell'Ambiente Andrea Orlando e del governatore veneto Luca Zaia il 15, nel quadro delle iniziative per il 50. anniversario del disastro che spazzò via interi paesi.
«Non vogliamo fare una celebrazione - ha detto Roberto Tonellato, della direzione dell'Unità di protezione civile e del Centro funzionale decentrato della Regione Veneto - ma pianificare e portare a casa un risultato concreto». Nei tre giorni, che si apriranno con un convegno sul tema della pericolosità idraulica a valle delle dighe, sarà sempre presente Franco Gabrielli, capo del Dipartimento della protezione civile. Tra i momenti chiave, domenica mattina il raduno dei soccorritori del Vajont. Dopo una sfilata per le vie cittadine di Longarone ci sarà il momento toccante del passaggio del testimone ai volontari della Protezione civile.
«Riteniamo sia doveroso - ha detto Padrin - esprimere la nostra gratitudine alle persone, furono circa diecimila, provenienti da tutt'Italia, che parteciparono alle operazioni di recupero delle salme, di soccorso al territorio devastato e di conforto ai pochi superstiti. Sarà l'occasione per riabbracciare tutte queste persone e una sorta di passaggio di testimone con i volontari attuali». «Rispetto al Vajont - ha ricordato l'assessore regionale alla Protezione civile Daniele Stival - è cambiato tutto: c'è una conoscenza e un'informazione in tempo reale che riesce ad essere preventiva rispetto alle problematiche. Questi tre giorni, comunque, saranno fondamentali per far crescere non solo il sistema veneto, ma anche tutto quello che vi ruota intorno».
Sabato, è prevista una esercitazione, con la simulazione, a Tambre, in Alpago, di un sisma di intensità 5,8 Richter con epicentro a 7,5 chilometri di profondità e un contemporaneo incendio boschivo, con black out totale degli ordinari mezzi di comunicazione via cellulare. «Sarà la prima applicazione della procedura - ha evidenziato il capo di gabinetto del Presidente della Regione Veneto, Fabio Gazzabin - che la Giunta ha voluto e che prevede un insieme di attivazioni per coordinare tutta la Regione in caso di calamità, ora codificate dopo che la gestione si era consolidata nel tempo. L'esercitazione ci permetterà di verificare se quel che la procedura prevede sia realmente gestibile».
(Ansa)
14 settembre 2013
Gli angeli del Vajont «Eravamo ragazzini, ritornammo uomini»
Domenica a Longarone il raduno dei soccorritori: attesi in mille. Lo scout: «Avevo 16 anni, spostavo i corpi»

LONGARONE (Belluno) — «Arrivò una camionetta e i militari scaricarono un fagotto. All’interno c’erano un piede e la testa di una bambina. Aveva i capelli lunghi, raccolti in una coda trattenuta da un fermaglio colorato. È stato terribile: per settimane, notte dopo notte, ho continuato a sognare quella bambina…». Enrico Biagioli nel 1968 aveva sedici anni e faceva parte degli scout, quando arrivò la notizia che una frana era piombata sul bacino artificiale del Vajont, sollevando un’onda che aveva spazzato via interi paesi. Partì dal suo paesino in provincia di Perugia senza sapere bene cosa aspettarsi.
«Volevo solo dare una mano, non avrei mai immaginato ciò che avrei vissuto in quei giorni», racconta. Morti, macerie, distruzione. «Io e altri scout fummo assegnati al cimitero. Dovevamo ricomporre le salme che venivano raccolte a Longarone, sistemando come riuscivamo quei corpi nudi e dilaniati in modo da poterli fotografare, per consentire ai parenti di riconoscerli». Ci sono ricordi che non si possono cancellare. Flashback che a cinquant’anni di distanza conservano tutti i dettagli, le luci della prima alba che si stagliò su quell’abitato trasformato in campo santo, e i suoni dei badili. Perfino l’odore, quello dei cadaveri in putrefazione, non si può scordare.
E allora sono proprio quelle immagini e quei gesti che uniscono i diecimila angeli del fango che, nei mesi successivi a quel 9 ottobre del 1963, andarono ad aiutare le popolazioni colpite. Domenica, quando ormai mancheranno una manciata di giorni al cinquantesimo anniversario del disastro, molti di loro si ritroveranno a Longarone. All’epoca erano militari, infermieri, scout, o semplici civili. Oggi, chi c’è ancora, è in pensione. Sono almeno un migliaio quelli attesi in un commovente abbraccio coi superstiti. Perché anche loro, in qualche modo, sono dei sopravvissuti al Vajont. Come Pietro Besoli, vicentino che oggi ha 72 anni e all’epoca era un alpino che svolgeva il servizio di leva a Ponte delle Alpi.

«A mezzanotte ci dissero che era crollata una diga, partimmo subito. Quando l’alba cominciò a illuminare la zona, dove prima esisteva un paese ora c’era un deserto. Vidi le rotaie del treno divelte, gli edifici spazzati via…». I morti erano dappertutto. «Rimasi sul campo per 45 giorni, durante i quali raccogliemmo decine di salme, nessuno sembrava essere sopravvissuto…». Domenica al raduno dei soccorritori parteciperà anche il vigile del fuoco Alessio Babetto, di Teolo. «Si lavorava per 10, anche 15 ore al giorno. Le salme venivano raccolte e sistemate l’una accanto all’altra sul ciglio della strada. L’odore cominciò a sentirsi dopo qualche giorno, quando iniziarono ad affiorare i resti che erano rimasti imprigionati tra le macerie...».
Ricordi drammatici che si mescolano ad altri più dolci. «C’è una piccola cosa, di quei giorni, che mi è rimasta impressa: dopo aver lavorato per tutto il giorno, la sera andavamo al bar a Ponte delle Alpi, e lì c’era sempre qualcuno che ci offriva da bere. È gente di montagna e questo era il loro modo di dirci grazie». Come ai giovani scout perugini, anche all’infermiere Giovanni Artuso di Rosà, nel Vicentino, toccò il compito di sistemare le salme che venivano scaricate al cimitero. «Impossibile dimenticare tutti quei morti, fu un disastro...». Anche l’alpino Franco Azzolin, di Marostica, ricorda tutto di quei giorni. «Fummo i primi ad arrivare sul posto, quando ancora era buio.
Il comandante ci ordinò di rimanere fermi, schierati a ventaglio, per attendere l’alba. Lentamente, le prime luci del giorno cominciarono a illuminare la zona: il paesaggio era cambiato, l’onda aveva spazzato via tutto. Sembrava di stare sulla luna. Il capitano disse: "Qui forse c’era Longarone". E allora capimmo cos’era accaduto». Per giorni raccolsero i cadaveri. «Alcuni commilitoni trovarono una donna e un bimbo ancora vivi». Troppo poco per ridare conforto a quei primi soccorritori. Domenica torneranno in quei luoghi. Il fango è stato ripulito, le case ricostruite. Ma la diga è ancora là, a fare da monito alle generazioni future. Non sarà facile, per loro, rivederla. Enrico Biagioli, lo scout, ancora si emoziona. «Sono partito per il Vajont che ero un ragazzino. Sono tornato uomo».
Andrea Priante
13 settembre 2013
Vajont, tre giorni per non dimenticare
Dal 13 al 15 a Longarone il primo atto delle celebrazioni. Da Orlando a Zaia, al raduno dei soccorritori
VENEZIA - Una tre giorni per ricordare, ma anche per fare il punto sulla prevenzione, sulle attività di soccorso in caso di disastri, sapendo, come ha ricordato il sindaco di Longarone (Belluno), Roberto Padrin, che con la tragedia del Vajont, del 9 ottobre 1963, che causò quasi 2.000 vittime, di fatto «è nato il primo embrione della Protezione Civile in veneto». È fitto di appuntamenti delle celebrazioni «La Protezione Civile e il Vajont. Prevenzione, Soccorso, Memoria», in programma da domani, venerdì 13 a Longarone, con la prevista presenza del ministro dell'Ambiente Andrea Orlando e del governatore veneto Luca Zaia il 15, nel quadro delle iniziative per il 50. anniversario del disastro che spazzò via interi paesi. «Non vogliamo fare una celebrazione - ha detto Roberto Tonellato, della direzione dell'Unità di protezione civile e del Centro funzionale decentrato della Regione Veneto - ma pianificare e portare a casa un risultato concreto».
Nei tre giorni, che si apriranno con un convegno sul tema della pericolosità idraulica a valle delle dighe, sarà sempre presente Franco Gabrielli, capo del Dipartimento della protezione civile. Tra i momenti chiave, domenica mattina il raduno dei soccorritori del Vajont. Dopo una sfilata per le vie cittadine di Longarone ci sarà il momento toccante del passaggio del testimone ai volontari della Protezione civile. «Riteniamo sia doveroso - ha detto Padrin - esprimere la nostra gratitudine alle persone, furono circa diecimila, provenienti da tutt'Italia, che parteciparono alle operazioni di recupero delle salme, di soccorso al territorio devastato e di conforto ai pochi superstiti. Sarà l'occasione per riabbracciare tutte queste persone e una sorta di passaggio di testimone con i volontari attuali».
«Rispetto al Vajont - ha ricordato l'assessore regionale alla Protezione civile Daniele Stival - è cambiato tutto: c'è una conoscenza e un'informazione in tempo reale che riesce ad essere preventiva rispetto alle problematiche. Questi tre giorni, comunque, saranno fondamentali per far crescere non solo il sistema veneto, ma anche tutto quello che vi ruota intorno». Sabato, è prevista una esercitazione, con la simulazione, a Tambre, in Alpago, di un sisma di intensità 5,8 Richter con epicentro a 7,5 chilometri di profondità e un contemporaneo incendio boschivo, con black out totale degli ordinari mezzi di comunicazione via cellulare. «Sarà la prima applicazione della procedura - ha evidenziato il capo di gabinetto del Presidente della Regione Veneto, Fabio Gazzabin - che la Giunta ha voluto e che prevede un insieme di attivazioni per coordinare tutta la Regione in caso di calamità, ora codificate dopo che la gestione si era consolidata nel tempo. L'esercitazione ci permetterà di verificare se quel che la procedura prevede sia realmente gestibile».
(Ansa)
12 settembre 2013
Vajont, il sindaco raduna i soccorritori «Mille eroi incontreranno i superstiti»
Da Longarone spedite le lettere-invito: già cinquecento risposte. All’alba del tragico 10 ottobre 1963 quelle persone accorsero a per aiutare le vittime

BELLUNO — Torneranno sui luoghi della tragedia, alcuni per la prima volta, altri per l’ennesima. Uniti, come quel maledetto giorno di 50 anni fa, quando in un sol colpo la tragedia del Vajont si portò via quasi 2.000 vite. Oltre un migliaio di soccorritori, accorsi da tutta Italia dalle prime luci dell’alba del 10 ottobre 1963, si riuniranno domenica 15 settembre a Longarone a conclusione del meeting regionale della protezione civile, al via venerdì 13. Un evento fortemente simbolico, voluto dal sindaco di Longarone, Roberto Padrin, per radunare tutti assieme militari, poliziotti, carabinieri, alpini e tanta gente comune che in quei giorni permisero al paese di ricominciare.
«Sono molti gli eventi che quest’anno abbiamo dedicato al Vajont, ma questo è quello che mi emoziona di più, già dalle fasi organizzative - spiega Padrin - Quel giorno ha segnato per sempre i ricordi e le vite di tutte queste persone e ora, 50 anni dopo, stanno per tornare qui, sugli stessi luoghi, in molti per la prima volta. Vogliamo accoglierli come fossero nostri fratelli, dire a ciascuno un enorme, sentitissimo grazie». E’ così che nelle scorse settimane dall’ufficio postale di Longarone, un po’ alla spicciolata, sono partiti oltre un migliaio di lettere a mo’ di «invito». Nome dopo nome, ognuno a raggiungere un volto e dietro ad esso tanti diversi ricordi. E, prontamente, le prime risposte non si sono fatte attendere. «Ne abbiamo già ricevute più di 500 - continua Padrin - Ringraziamenti, conferme della propria presenza.
Vogliamo davvero raggiungere quante più possibili di queste persone. Negli anni abbiamo raccolto tanti nomi in un lungo elenco, purtroppo però non saranno mai tutti. Spero che chiunque apprenda la notizia di questo "raduno" passi parola fino a informarli tutti». Il programma della giornata prevede il ritrovo alle 9 davanti al municipio, da dove partirà poi una sfilata da pelle d’oca attraverso Longarone, fino al Palasport. Celebrata la messa, seguirà uno dei momenti più toccanti dell’intera giornata, l’incontro con i superstiti, fino al simbolico passaggio di consegne tra i soccorritori del Vajont e i volontari di protezione civile. Tutti i soccorritori non raggiunti dall’invito via lettera potranno presentarsi la mattina del raduno. Per info chiamare lo 0437/573000, scrivere all’indirizzo mail soccorritori.vajont@gmail.com o via fax al numero 0437/771445.
Bruno Colombo
30 agosto 2013 (modifica il 31 agosto 2013)